(SECONDA PARTE DI TRE)
Ed eccoci al secondo ramo dell’Ashtanga Yoga: Niyama.
Mentre gli Yama sono principalmente focalizzati su comportamenti morali, universali e generali, che dovrebbero essere comuni a chiunque e non solo a uno yogi, con Niyama ci soffermiamo soprattutto sulla qualità della relazione che intratteniamo con noi stessi.
Il termine Niyama può essere tradotto come dovere od osservanza.
La pratica di questo secondo ramo dell’Ashtanga Yoga ci aiuta a mantenere un ambiente positivo nel quale crescere e ci dona quel giusto equilibrio tra autodisciplina e forza interiore necessario per progredire nello Yoga.
Gli Niyama si suddividono in cinque filoni:
Sauca, Santosa, Tapas, Svadhyaya, Isvara Pranidhana
Potremmo dire che Yama e Niyama sono le cementa su cui si poggia l’Ashtanga Yoga. Essi creano una solida e forte base che permette agli yogi di muoversi sempre più profondamente con forza, concentrazione e quindi successo. Praticare Yama e Niyama è un viaggio lungo e impegnativo. L’importante è non desistere e continuare nell’osservazione e nel lavoro su se stessi. Citando Swami Sri Kripalvanandaji:
“Quando raccogli un petalo dalla ghirlanda degli Yama e Niyama, l’intera ghirlanda seguirà”.
1. Saucha
शौचात् स्वाङ्गजुगुप्सा परैरसंसर्गः॥४०॥
śaucāt svāṅga-jugupsā parairasaṁsargaḥ ॥40॥
La purezza comporta l’abbandono della fisicità e la cessazione del contatto fisico con le cose esterne
Viene tradotto come purezza, pulizia. La tradizione ayurvedica intende una pulizia del corpo accurata, eseguita attraverso gli shatkarma, le sei azioni purificatrici:
- Dhauti, per la pulizia del tratto digestivo superiore;
- Basti, per la pulizia del colon;
- Sutra Neti , che riguarda la pulizia nasale; per questa pulizia si può anche ricorrere a una versione più blanda, Iala Neti, che anche se non è segnato fra gli Shatkarma può comunque essere un valido aiuto;
- Trataka, che riguarda la pulizia degli occhi;
- Nauli, che riguarda la pulizia e il rafforzamento dell’addome (e sul quale noi stiamo lavorando proprio ora in classe abituandoci a Uddiyana Bandha);
- Kapalabhati, per la pulizia dei polmoni e dei bronchi, ma che ha anche un effetto rinforzante sul sistema nervoso e tonificante per gli organi digestivi.
Quindi la pratica personale comincia dalla purificazione del corpo, per poi proseguire con la pulizia in senso profondo, partendo dal grosso per andare poi sempre più in profondità, fino a trovare quel qualcosa che è sempre puro e che mai potrà essere contaminato.
Ricorda: pulizia di parole, azioni e pensieri.
2. Santosha
संतोषाद् अनुत्तमः सुखलाभः ॥४२॥
saṅtoṣād anuttamaḥ sukhalābhaḥ ॥42॥
Dalla contentezza scaturisce la felicità suprema
Questo termine deriva dal sanscrito Sam, che significa “completamente” o “del tutto” e “toṣā” che significa “soddisfazione” o “accettazione”. Saṅtoṣā è un atteggiamento. Se siamo abituati a essere infelici e brontolare, rischiamo di essere infelici e brontolare anche nelle migliori situazioni. Questo Niyama ci insegna che la forza della felicità è misurata dal nostro atteggiamento davanti alle situazioni avverse. Se tutto va liscio, il nostro sorriso non vale nulla: dovremmo imparare a sorridere anche quando le nostre sicurezze vacillano o addirittura crollano. Saṅtoṣā è una pratica. Essere felici incondizionatamente è una pratica. E dobbiamo svilupparla da soli, perché nessun altro può farlo per noi. Se qualcun altro o qualcos’altro ce la dà, sarà solo una felicità temporanea.
Saṅtoṣā è strettamente collegato con il primo Niyama, śaucā. Quando Patanjali scrive che śaucā, la purezza, comporta l’abbandono della fisicità e la cessazione del contatto fisico con le cose esterne, intende che se siamo costantemente in contatto con altre persone, allora non permettiamo al nostro vero io di emergere e mostrarsi. Dal momento che siamo sempre in associazione con qualcun altro, ci perdiamo e non sappiamo chi siamo, non ci conosciamo. Per questo dobbiamo mantenere un po’ di distanza e un po’ di tempo per noi stessi: per imparare a conoscere qual è la nostra vera forza, qual è la nostra vera debolezza, qual è la parte più pura e autentica di noi, quella che non può essere corrotta. Solo quando avremo sviluppato śaucā potremo scoprire saṅtoṣā, la vera contentezza.
Ma come fare quando siamo sopraffatti da un’emozione forte?
Pensiamo alla tragedia della morte. Quando qualcuno muore, la miseria prende il sopravvento e quel periodo è chiamato aśaucā, nel senso che non c’è śaucā, non c’è purezza perché la mente è afflitta dalla tristezza. Quindi in India, i 10 giorni dopo la morte di qualcuno sono considerati aśaucā: per 10 giorni si può piangere, affliggersi, autocommiserarsi. L’undicesimo giorno la famiglia si riunisce e festeggia, indossando abiti nuovi e scambiandosi doni: la vita continua. Addirittura, se muore una persona con un elevato piano spirituale, non c’è lutto nemmeno per un giorno. Ogni momento è una celebrazione perché lo spirito è onnipresente. Allo stesso modo, pensiamo a un evento diametralmente opposto: la nascita di un bambino. Anche in questo caso c’è aśaucā per dieci giorni, perché siamo così euforici per la nuova anima che non siamo veramente presenti a noi stessi. Quindi si festeggia, si dimenticano tutti gli impegni, si gioisce e basta. All’undicesimo giorno, si torna presenti.
3. Tapas
कायेन्द्रियसिद्धिरशुद्धिक्षयात्तपसः॥४३॥
Kāyendriyasiddhiraśuddhikṣayāttapasaḥ||2.43||
«Dalla distruzione delle impurità mediante la volontà cosciente (tāpas) si ottiene la perfezione degli organi di senso e del corpo»
Deriva dalla radice sanscrita del verbo Tap che contiene diversi significati fra i quali prima di tutto calore e poi volontà, fervore, rigore ascetico. Tāpas è la disciplina che nello Yoga ci permette di ottenere, come il versetto sopra dice, il pieno controllo degli organi di senso, del corpo e della mente.
L’associazione simbolica con l’elemento fuoco, Agni nella tradizione indiana, è molto importante: il fuoco porta a un processo di trasformazione che produce energia sottoforma di calore, luce. Ed è proprio la determinazione a perseguire il cammino verso la liberazione che alimenta il nostro fuoco interiore e che ci permette di bruciare le impurità del corpo grazie a qualità come l’autodisciplina, la forza di volontà, l’ardore, la pazienza e la piena intenzione di raggiungere lo scopo. Questo è quindi Tāpas, il cammino dello yogi verso la piena consapevolezza di sè.
Il ricercatore spirituale che realizza la propria ascesi è colui che vive la vita secondo queste importanti virtù e che si mantiene in salute mediante la pratica delle posizioni, la giusta attenzione al proprio respiro, un’alimentazione sana ed equilibrata nel rispetto dell’ambiente e della vita di tutti gli esseri, l’abitudine a meditare costantemente. Questo è quanto la scienza dello Yoga insegna per apprendere una conoscenza autentica e assoluta della vita, per esplorare la realtà e acquisire consapevolezza del proprio essere.
4. Svadhyaya
स्वाध्यायाद् इष्टदेवतासंप्रयोगः ॥ २.४४ ॥
svādhyāyād iṣṭadevatāsaṃprayogaḥ || 2.44 ||
«Per effetto della preghiera ci si incontra con la divinità prescelta»
Il termine deriva dalla radice sanscrita sva, che significa “sé” o “proprio”, e adhyaya, che significa “lezione”, “lettura” o “conferenza”. Può anche essere interpretato come proveniente dalla radice dyhai, che significa “meditare” o “contemplare”. Entrambe le interpretazioni connotano uno studio approfondito del sé, supportato dalla recitazione dei mantra e in generale dei testi sacri.
Con Svādhyāyā ci avviciniamo alla sfera più elevata dello Yoga: solo attraverso uno studio profondo del sé possiamo giungere a una comprensione più elevata e di unione. La meditazione e la pratica del respiro consapevole sono le basi. Il lavoro sul tappetino è il primo step per andare verso questa conoscenza: come pratichiamo le asana? Ci distraiamo o riusciamo a essere presenti? Com’è il nostro respiro? Breve, affannato, lungo, profondo? Viene dall’addome o dal torace? Svādhyāyā però non si può restringere al solo momento in cui siamo sul tappetino, la vera sfida arriva nel quotidiano: mettersi in gioco ogni momento, osservarsi nei comportamenti, nelle nostre re-azioni, nelle parole.
Come reagisco quando sono nervoso, arrabbiato, quando qualcosa non va come mi aspettavo? Ma posso anche osservare come mi vesto, come ringrazio, come mangio… tutti questi piccolissimi gesti quotidiani ci dicono chi siamo veramente. Anche osservare i propri pensieri è un ottimo lavoro: realizzare quali pensieri entrano regolarmente nella nostra mente ci aiuta a diventare consapevoli di molti aspetti di noi stessi che magari a primo acchito tendiamo a sottovalutare.
La pratica di Svādhyāyā richiede Satya, (verità), per vedere noi stessi da un punto di vista onesto, Tāpas (disciplina), Ahiṃsā (non violenza), che ci ricorda di guardare a noi stessi senza giudizio o critica, ma con amore e compassione. Amore e compassione sono sempre la base per ottenere un sano risultato.
“Conoscere gli altri è intelligenza; conoscere te stesso è la vera saggezza. Padroneggiare gli altri è forza; padroneggiare te stesso è il vero potere.“
Lao Tzu
5. Ishvara Pranidhana
«Per effetto della dedizione totale al Signore
[si attinge] la perfezione dell’enstasi»
(Yoga Sutra, 2.45)
Rappresenta l’abbandono a un Essere Supremo. In altre parole, si tratta della nostra capacità di affidarci a un Essere superiore, a qualcosa di più grande di noi che ci sovrasta, illumina e protegge. Infatti, lo stesso Patanjali non circoscrive il concetto di Ishvara a una divinità specifica ma si riferisce generalmente alla fede in un Essere spirituale. Questo rappresenta un aspetto estremamente interessante poiché consente al praticante di sviluppare la propria devozione per qualunque Entità, sia essa rappresentata dall’intero Creato, dalla Natura o da una Divinità. Ciò significa che il Divino può assumere la forma che preferisci. A te sta la scelta di decidere a chi consacrare le tue azioni…
Infine, è bene sapere che, da un’altra prospettiva, Ishvara Pranidhana può anche coincidere con “il nostro vero Sè”, vale a dire con la “Divinità che alberga in ciascuno di noi”. Pertanto, in questi termini, il Niyama di Ishvara Pranidhana rappresenta un invito a vivere con profonda intenzione il proprio dovere distaccandosi dai risultati delle proprie azioni. Come si applica concretamente Ishvara? È possibile praticarlo in diversi modi. Anzitutto attraverso la via della Preghiera formale, con la recitazione dei Mantra, oppure consacrando le proprie azioni alla Divinità prescelta. Per applicare questa osservanza personale puoi inoltre scegliere di portare piena consapevolezza in ogni tua attività o esperienza, conscio del fatto che non tutto dipende da te. Infatti, l’esistenza di forze superiori che governano l’Universo, ci deve portare a compiere al meglio ogni azione con le risorse di cui realmente disponiamo. Dunque, come detto in precedenza, non è necessario che tu creda necessariamente a una rappresentazione di Dio per mettere in atto questo Niyama e accettare che esista un Disegno Divino, un’Essenza benevola che regola l’Universo.
Di seguito qualche suggerimento per mettere in pratica il concetto di Ishvara Pranidhana nella vita di ogni giorno:
- Prova a fare del tuo meglio ogni volta che intraprendi un nuovo progetto ma cerca di lasciare andare ciò che sai di non poter controllare;
- Se non lo hai mai fatto, sperimenta i poteri e gli straordinari benefici dei mantra;
- Cammina a piedi nudi nell’erba, fermati a contemplare un cielo stellato. Mantieni vivo il tuo contatto con la Natura per fare esperienza diretta del concetto di “Uno con il Tutto”.
Nel prossimo articolo parleremo dei rami dell’Ashtanga Yoga dal terzo all’ottavo ramo.