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Gli otto rami dell’Ashtanga Yoga: gli Yama

Pubblicato: 12/27/2023
Gli otto rami dell'ashtanga yoga

Photo credit © Pexels

(PRIMA PARTE DI TRE)

La parola Ashtanga yoga significa letteralmente Astau (otto) Anga (aspetti, rami, membra, livelli).
Questi Anga sono intercollegati; ciascuno di essi ha numerose sfaccettature che si rivelano attraverso lo studio dei testi e con la pratica. Conducono progressivamente agli stadi più elevati di consapevolezza e alla vita spirituale; le discipline che li costituiscono sono via via più interiori.

Lo Yoga è la realizzazione dello stato per cui il soggetto (colui che cerca),

l’oggetto (l’oggetto della ricerca) e l’atto della ricerca (la pratica) non sono più entità separate,

ma sono un tutt’uno. In questo stato viene svelata la vera natura dell’esistenza.

Iniziamo a parlare degli otto rami dell’Ashtanga Yoga partendo dal primo: gli Yama.

Yama

Yama sono le astensioni dalle offese, la continenza, l’astensione dall’avidità, la sincerità e l’astensione dal furto.

Con il termine Yama si intende il primo step, le pratiche morali, anche dette “grandi comandamenti universali”. Nel contesto dello yoga, Yama va inteso come il trattenitore, dalla radice Yam che significa frenare, controllare, cessazione. Yama, quindi è l’astinenza che deve essere applicata ai pensieri, alle parole e alle opere. Queste pratiche mirano a porre il fondamento etico nel Sadhaka (praticante), che reagirà alle situazioni che la vita gli presenterà in accordo con tali osservanze.

Gli Yama si suddividono in cinque filoni: 

Ahimsa, Satya, Asteya, Brahmacharya, Aparigraha

1. Ahimsa

अहिंसाप्रतिष्ठायां तत्सन्निधौ वैरत्यागः॥३५॥
Ahiṁsāpratiṣṭhāyāṁ tatsannidhau vairatyāgaḥ||35||
Allorché lo yogin è radicato nella non- violenza, coloro che sono in sua  presenza cessano ogni ostilità

Ahiṃsā significa letteralmente assenza del desiderio di uccidere. Questo aspetto dello yoga è stato praticato e reso famoso dal Mahatma Gandhi, quando indusse la popolazione indiana a liberarsi dalla dominazione britannica in maniera pacifica. 

Gli Yoga Sutra descrivono Ahiṃsā in questo modo: «Quando si è fermamente stabiliti nella non-violenza, vi è abbandono dell’ostilità» (2.35). In sanscrito: “Ahiṃsā –pratishthayam tat-sannidhau vaira-tyagah“, che letteralmente significa “Quando la non violenza è stabilizzata, nelle vicinanze di essa, le tendenze ostili sono eliminate.“

Ahiṃsā non è semplicemente non fare del male agli altri, a noi stessi o all’ambiente, non è un principio passivo, ma è sviluppare empatia verso ogni essere vivente, una eliminazione totale del seme della violenza che è latente in noi. Lo stesso termine non violenza andrebbe poi esaminato, poiché le sfumature sono tante e molto sottili. La stessa indifferenza può essere, ad esempio, una forma di violenza se vogliamo essere onesti.

Ma ovviamente la vera non-violenza deve essere innanzitutto praticata verso il proprio intero essere (corpo, mente e spirito), diventando colmi di amore profondo per tutte le differenti manifestazioni della vita. La non-violenza infatti sviluppa in noi qualità sublimi come il perdono, il controllo degli istinti aggressivi, l’umiltà, l’amore incondizionato. Solo allora saranno cacciate le tendenze ostili e anche ciò che ci sta intorno risuonerà di questo stato di ahiṃsā.

Questo principio è anche spiegato dalla fisica quantistica: ogni corpo vibra e le sue vibrazioni attirano, agganciano e si uniscono a quelle che incontra sulla sua stessa frequenza d’onda scartando le altre. È la legge di risonanza, anche nota come Legge di Attrazione: tutto nell’Universo vibra continuamente e le vibrazioni che si trovano sulla medesima frequenza si attirano, entrano in contatto 

2. Satya

सत्यप्रतिष्ठायां क्रियाफलाश्रयत्वम्॥३६॥
Satyapratiṣṭhāyāṁ kriyāphalāśrayatvam||36||
Quando la verità è radicata in lui,  egli consegue i frutti dell’azione senza agire

Satya è il secondo ramo degli Yama e significa onesto, sincero o virtuoso.

Satya è un comportamento di verità, una qualità per mantenersi veri nelle parole, nei comportamenti, nei pensieri, ma è anche un modo di perseguire la verità anche all’esterno di noi stessi. Nell’ordinario può capitare di usare parole negative senza farci caso, ma quando si pratica yoga l’attenzione viene portata con sempre maggiore frequenza all’uso corretto di ogni termine o frase. 

Infatti, anche se le parole non lasciano delle ferite fisiche, se ne abusiamo sono in grado di produrre seri danni emotivi, così profondi che la psicologia considera l’abuso verbale tanto pericoloso quanto qualsiasi altra forma di maltrattamento, come quello fisico o sessuale. Per questo prima di pronunciare delle parole, quando queste sono ancora soltanto pensieri, è bene capire che facciamo ancora in tempo ad evitare che quella critica, giudizio o negatività esca da noi, trasformandosi in una freccia velenosa.

La parola è solo l’espressione del pensiero e del relativo comportamento. Partendo perciò dall’aspetto più visibile possiamo purificare anche la causa meno visibile e perciò più sfuggente, quale il pensiero. In generale infatti quando usiamo parole cattive, offensive, ingiuste verso gli altri, prima di tutto stiamo autosabotando noi stessi, mossi principalmente dalla paura.

Nel 2010 i ricercatori dell’Università di Harvard hanno scoperto che le persone trascorrono quasi la metà delle ore di veglia pensando a qualcosa di diverso da quello che stanno facendo e che questa distrazione li rende infelici (anche quando la loro mente vaga verso soggetti piacevoli). Gli autori hanno scritto: “In conclusione, una mente umana è una mente distratta e una mente distratta è una mente infelice. la capacità di pensare a quello che non sta accadendo è una realizzazione cognitiva che arriva ad un costo emozionale”. L’infelicità della distrazione, naturalmente, è esacerbata dal fatto che spesso, mentre la nostra mente vaga, i nostri programmi subconsci stanno sabotando i desideri della nostra vita!

Se riusciamo a comprendere che ognuno di noi può attingere ad una sua spiritualità interiore, che può scoprire il sacro nel suo quotidiano, cioè quel qualcosa fatto di verità che il pensiero e le sue false parole non possono toccare e men che meno contaminare, ci troveremo così in una dimensione dove Satya emergerà in modo facile e spontaneo. Satya allora porterà parole vere, sane, costruttive e con esse i relativi pensieri e comportamenti che aiuterebbero l’essere umano nel suo percorso verso la bellezza.

3. Asteya

अस्तेयप्रतिष्ठायां सर्वरत्नोपस्थानम्॥३७॥
Asteyapratiṣṭhāyāṁ sarvaratnopasthānam||37||
“Quando asteya è radicato nella persona, tutti i gioielli ed i tesori si presentano allo Yogi

Viene spesso tradotto come non rubare e può essere interpretato in maniera semplicistica come non appropriarsi di ciò che non è nostro. Il senso di questo yama però è molto più articolato e profondo e concerne il concetto di non attaccamento.
Il non attaccamento ci permette sia di non vantarci per una buona azione compiuta, sia di non aspettarci nulla dalle situazioni che si presentano nella nostra vita. È una condizione di equanimità e di sano distacco. Quando le persone o le cose diventano oggetto del nostro desiderio infatti, sviluppiamo aspettative e senso di attaccamento, sottomettendole alla nostra ottica duale di giusto/sbagliato. Ergiamo noi stessi a giudici, ponendo delle etichette alla persona o all’oggetto in questione e finiamo per non accettare più l’essere umano di fronte a noi per ciò che è, ma in quanto “nostro”, fissandogli il ruolo che abbiamo scelto per lui (il mio compagno, mia madre, mio figlio…).
Così facendo carichiamo di aspettative la persona in base a ciò che per noi è giusto, smettendo di essere grati per l’incontro e per i possibili nuovi orizzonti che la situazione ci può indicare. Di conseguenza sorgono le frustrazioni, le aspettative ed il desiderio di cambiare ciò che non ci piace in chi abbiamo di fronte. Inoltre, agendo in questa maniera carichiamo noi stessi di aspettative e non appena ci discostiamo dal nostro ideale iniziamo a non accettarci più.

Asteya quindi potrebbe anche essere inteso come una sospensione del giudizio. Imparando ad amare, apprezzare, condividere senza alcuna aspettativa, senza istinto di possesso, riusciamo a godere in pieno della bellezza senza rimorsi, vivendola in maniera completa e armonica.

La storia del Ramayana inizia proprio con questo fatto: la regina Kaikeyi, alla quale è stato concesso dal marito di esprimere due desideri, chiede che Rama, figlio di una precedente moglie del re e designato come successore dal padre, non venga nominato reggente e che al suo posto venga insignito del titolo suo figlio Bharata. Onde evitare possibili problemi Kaikeyi esprime come secondo desiderio che Rama venga mandato in esilio per 14 anni. Il re non può negare queste richieste alla moglie, che un tempo gli aveva salvato la vita, e col cuore spezzato accetta di mandare l’amato Rama in esilio, morendo poco dopo per la tristezza.
Bharata, scoperta l’ingiusta richiesta della madre, rifiuta di occupare il trono e chiede a Rama di tornare ma questi, rispettando le ultime parole del padre, decide di continuare il suo esilio.  Accetta però la richiesta di Bharata di lasciargli i suoi sandali, che vengono posti sul trono sul quale il giovano fratellastro non si siederà mai, per enfatizzare il legame e il rispetto che porta a Rama. Bharata attenderà 14 anni il ritorno di Rama dall’esilio forzato, governando da un eremo con umiltà, buon senso e senza farsi notare.

4. Bramacharya

ब्रह्मचर्य प्रतिष्ठायां वीर्यलाभः ॥३८॥
brahma-charya pratishthayam virya-labhah ||38||
Quando si è fermamente stabiliti in Brahmacharya si ottiene vigore (Yoga Sutra)

“Brahma” è il Dio della creazione, il termine con cui viene descritto significa letteralmente illimitata immensità, da considerarsi come unica e indivisibile; mentre “charya” può essere inteso come andare verso.
Nell’induismo, Brahmacharya si riferisce al primo dei quattro ashrama, gli stadi della vita descritti negli antichi testi. Il sistema degli ashrama divide la vita umana in quattro livelli, ad ognuno dei quali il sādhaka, il praticante, ottiene un certo sviluppo.

I primi 24 anni di vita sono segnati dal periodo del brahmacharya, dove il sādhaka apprende dal guru e impara il controllo dei sensi; fra i 25 e i 49 anni  abbiamo l’epoca del grihastha, dove il praticante forma la sua famiglia e cresce i figli; fra i 50 e i 74 anni c’è il periodo del vanaprastha, quando si condivide la propria conoscenza con gli altri e ci si prepara ad allontanarsi dal mondo materiale; dai 75 anni in su infine è l’epoca del sannyāsa, spesso tradotto come “rinunciatario”. Questo è lo stadio finale della vita, in cui si rinuncia ai beni materiali e ci si dedica interamente al proprio cammino spirituale.

Brahmacharya quindi rappresenta il primo stadio della vita. Questo è un periodo di apprendimento e include la pratica del celibato. In questo senso il termine connota la castità, virtù che aiuta il giovane a indirizzare tutte le sue energie verso lo studio sotto la guida di un valido guru.
Molto spesso Brahmacharya viene quindi spiegato come astinenza sessuale tout court, ma descritto così riduciamo di moltissimo il suo senso più profondo.
Anche se l’astinenza sessuale è un aspetto maggioritario del brahmacharya, ne è comunque solamente una parte, sebbene certamente una delle più difficili da controllare.
Brahmacharya è soprattutto un atteggiamento mentale nei confronti degli aspetti sensuali ed implica vivere in maniera sobria, con autocontrollo e moderazione nei pensieri, nelle parole, nelle azioni. Significa essere padroni dei propri sensi, essere capaci di tenere ben salda la mente in un atteggiamento di distacco consapevole dagli oggetti, dalle persone, dalle circostanze sia favorevoli che contrarie, dai nostri stessi pensieri.

Spesso purtroppo la gente, nella ricerca di una pratica più sostenuta, si costringe nel celibato senza esserne convinta, senza sentirsi veramente a suo agio e soprattutto creando un atteggiamento di rigidità verso tutti gli aspetti della vita. La stessa cosa possiamo vederla negli asana, le posture. Tanta gente si ostina, malgrado il dolore fisico e un corpo stanco che vuole riposare. Allora invece di imparare dallo yoga ad ascoltare il nostro corpo ed in ultimo a conoscere maggiormente noi stessi, non facciamo altro che limitarci ulteriormente, ostinarci in qualcosa che ci pare sia giusto, una formulina matematica creata da qualcun altro che non si sposa con noi o che non sappiamo fare nostra.

Il fine ultimo degli yama e niyama non è quello di imporre un sistema etico e morale che renda la vita tediosa e la mente rigida, ma quello di affievolire il potere delle nostre passioni in modo da canalizzare l’energia verso una coscienza superiore.
Solo a quel punto yama e niyama si trasformeranno da una forma di pratica in una realizzazione che ci porterà verso la libertà e la gioia.

5. Apraigraha

अपरिग्रहस्थैर्ये जन्मकथंता संबोधः
aparigraha-sthairye janma-kathaṁtā saṁbodhaḥ II Sutra 39
“Allorché lo yogin è fermamente stabile nella non-possessività, sorge la conoscenza dei “come” e “perché” dell’esistenza

Viene abitualmente tradotto come assenza di avidità, ma il termine non possessività è molto più corretto.
Per non possesso non si deve intendere il mero possesso materiale, ma anche mentale e quindi infine anche spirituale. Quante volte ci rendiamo conto, magari dopo qualche ora (se ci va bene, più probabilmente dopo mesi o anni!), di aver perso tempo rincorrendo il nulla, attaccati a un pensiero, una sensazione che in ultima analisi non era altro che un falso desiderio, una percezione distorta, una sensazione che in verità non faceva neanche parte di noi?

Abbiamo tutti degli obiettivi, ma il tempo che si ha a disposizione viene spesso utilizzato in maniera poco efficiente, per reagire mentalmente a fenomeni esterni al nostro vero sentire. Siano essi una persona che ci parla, uno schermo di computer che ci tempesta di informazioni, un evento nella strada accanto: qualsiasi cosa sposta la nostra attenzione dal nostro vero sentire all’oggetto posto in questione.
Essere capaci di eliminare il superfluo, l’inutile, tutto ciò che può deviare, rallentare, ostacolare, distrarre, fermare o inquinare la nostra vera via è Aparigraha.

A volte si tende a pensare che nel non volere di più, nell’accontentarsi ci sia una sorta di rassegnazione passiva e io stessa agli inizi lo pensavo e mi ribellavo a questa placida “rilassatezza” di alcuni insegnanti… anzi, mi dava proprio fastidio!
Ben lungi dall’essermi illuminata, per lo meno mi sono calmata un po’ e ora so che non si tratta di rassegnazione, né di passività nei confronti della vita. Al contrario, si tratta di vivere più intensamente e in una maniera più appagante.
Aparigraha non vuole censurare, né boicottare ciò che materialmente possediamo, ma eliminare gli attaccamenti e le dipendenze che ne possono derivare, rendendoci infine più liberi e ricchi, consci di ciò che abbiamo.

Imparando ad “accogliere e accettare” ciò che arriva per come è infatti, senza ricamarci sopra, ci si può accorgere che forse abbiamo già molto più di quanto credessimo, sia a livello materiale che a livello più sottile. Ci rendiamo conto anche che la perdita è un fatto della vita, così come il cambiamento. E guardando a questi fatti col dovuto distacco, potremmo persino notare che è proprio quel distacco che ci permette di sentirci maggiormente in comunione col tutto, a disperderci di meno e a non limitare il nostro amore e le nostre emozioni. Si tratta in qualche modo di un risparmio energetico, che accresce la nostra empatia senza sciuparci. E quando siamo radicati nel godere di ciò che già abbiamo e siamo, allora Patanjali dice, “sorge la conoscenza”.

Leggi qui l’articolo sul secondo ramo dell’Ashtanga Yoga.

Pubblicato: 12/27/2023